Premetto che non farò discorsi di tipo “agiografico”, e questo lo dico perché non mi si fraintenda. Non sono mai stato tanto affascinato dai collettivi, tranne quando ero matricola a Lettere, alla Sapienza.
Insomma, dopo cinque anni di liceo passati in provincia, mi son cominciati a venire dei certi fastidi. La provincia ha addirittura un odore diverso, un odore sottile, che di soppiatto si intrufola nelle maglie dei vestiti e paradossalmente sei l’unico a non sentirlo; una volta scappato, una volta in città. Arrivare ad iscriversi in una grande università e ritrovarsi già con il sacco a pelo nello zaino e sentire finalmente la tanto agognata parola “occupazione”, o altre che mi rimbombano addosso, dà un senso di liberazione enorme. Poi il ragazzo apre gli occhi, e quel mondo che aveva intravisto attraverso la crisalide non gli appare poi così luminoso come nelle aspettative. Comincia a vederne i difetti: nelle persone dei collettivi, troppo scimmiottanti veri personaggi pubblici, nelle bandiere, vecchie, nelle canzoni… vecchie anch’esse; nei ragazzi accanto a sé, investiti di fascino e di troppe illusioni.
Sono passati 5 anni, ed io nel frattempo da ragazzo di provincia, un po’ viaggiando, un po scoprendo nuove realtà, un po’ vivendo in paesi stranieri per diverso tempo, ho scacciato quelle puzza di provincia da dosso, e ho cominciato a sforzarmi di capire e rientrare nelle dinamiche della protesta universitaria, che nel frattempo aveva più che altro cambiato qualche nemico, ma che all’apparenza rimaneva simile a come la avevo lasciata almeno tre anni prima.
Lunedì sera 13 dicembre mi sono incontrato con degli amici in zona San Paolo: qualcuno già stava lì, altri ci stavano raggiungendo da varie facoltà occupate, sempre nella zona della terza università; sono cominciati discorsi di voci sentite od origliate sull’indomani, e a poco a poco un senso di entusiasmo si è cominciato a confondere con una forte insicurezza e paura. Ci aspettavamo infatti un’affluenza minore rispetto al 30 novembre, perché pensavamo che quel giorno si fosse toccato l’apice.
Senza grandissime aspettative, e un po’ di scetticismo, il martedì 14 mi sono svegliato con calma, ho preso il caffè ed ho fumato la sigaretta, ho preso poi la bicicletta e mi sono andato a fare dei giri con nelle cuffie la radio per vedere dove dovevo andare a cercarmi il corteo. Ne incrocio un pezzo dalle parti di piazza Indipendenza: sono molto <piccoli. Riscendo verso via Cavour
e tutto sembra esageratamente normale, a parte sull’incrocio con i Fori, dove dal Colosseo arriva una marea di gente. Faccio un paio di telefonate e contatto Claudio con cui prendo appuntamento sulle scale di San Pietro in Vincoli. Prima di raggiungerlo voglio pedalare fino a largo Argentina per dare un’occhiata alla situazione, ma soprattutto per prendermi un po’ di sole e scaldarmi in una piazza Venezia silenziosa, come solo due settimane prima avevo vissuto. Il silenzio è una componente fondamentale della giornata. Ritorno quindi ad Ingegneria, lego la bici a Monti, e saluto Claudio con un abbraccio. Lui ha un sorriso teso tra l’ansia e il tanto freddo. A poco a poco ci rendiamo conto che la gente questa volta è molto di più delle aspettative, e questo ci dà una piacevole sensazione, come un senso di sicurezza in più; come fossimo protetti. Lui si è portato appresso un paio di limoni, io a casa non li avevo e per strada mi è passato di mente di prenderli; ci serviranno già lungo corso Vittorio. Lì incontriamo Luca, suo coinquilino e mio amico da molti anni, ma il momento è delicato perché abbiamo appena saputo che il governo ha ottenuto la fiducia. La piazza si passa la notizia, e lì comincia il silenzio. Sembra paradossale ma per tutto il tempo, in particolare durante il tratto sul lungo Tevere, la massa rimane come ammutolita, come se fosse in ascolto… sono poche le grida, sono diminuiti i cori, la musica dei camioncini si sente in lontananza. Sentiamo di tanto in tanto delle esplosioni, di piccoli petardi, lo scoppiettio della plastica dei bancomat che brucia. Il vetro frantumato delle banche diventa per assurdo più rumoroso di ogni altra cosa. Piazza del Popolo si apre davanti a noi bella, rotonda ed accogliente nella luce del primo pomeriggio, debole e corposa.
Da quel momento perdo tutto e tutti. Mi allontano da quel delirio, cammino all’indietro senza perdermi nemmeno un attimo di quello che riesco a vedere stia accadendo, così inciampo in muretti e persone fino a ritrovarmi davanti a Santa Maria del Popolo; guardo la facciata e guardo la piazza che si scalda sempre di più, e comincio a pensare alla cappella Chigi, a Raffaello, ai mosaici e a Caravaggio che dalle parti del transetto mi bisbiglia qualcosa; a tutto il tempo buttato lì dentro con penna e taccuino, in un silenzio all’incenso per un ultimo esame di pochi mesi prima. I rumori e le grida attorno a me mi distolgono da questi pensieri e mi giro, intravedendo delle fiamme e mi ritrovo davanti Francesco che mi corre addosso sorridendomi e mi abbraccia, e anche lui come Caravaggio mi bisbiglia qualcosa che non capisco, o non ricordo, e insieme guardiamo il fuoco.
Il fuoco è strano.
Ruggisce, lontano com’è dal lato opposto della piazza, ma non ne sentiamo i suoni. Ci rapisce
una strana sensazione e mi viene da alzare i pugni: grido questa volta, grido come non ho mai fatto durante tutta la giornata. Il fuoco è strano per tanti motivi che ancora non sono riuscito a decifrare, sarà perché non l’ho mai visto partire da delle auto blindate della Finanza, sarà perché non ho mai vissuto una scena del genere, soprattutto al centro di Roma. Il tutto dura una mezz’ora, tempo in cui mi vedo la folla con i caschi che danza avanti e in dietro tra il Corso e la piazza, e Roma sembra una grande sedia a dondolo in fiamme.
Non sono deluso questa volta, non mi sento offeso verso questa gente che ha “rovinato una protesta pacifica” (trita e ritrita frase fatta che ha sempre dato degne conclusioni ad ogni protesta cui ho partecipato). Questa volta penso che il fuoco abbia meno importanza, che sia meno grave di alcuni operati dei governanti. Questo pensiero diventa un coro enorme, perché nel frattempo la gente non è scappata a casa; si è lasciata invece affascinare dal fuoco e lo guarda conscia del pericolo della carica della polizia, che da li a poco ci investirà. Ma la gente resta, resta finché può a guardare il falò…. poi il Muro Torto ci cullerà tutti piano piano verso un luogo sicuro, e poi la sera verso casa.
Quella sera si sono alternati tanti racconti, e le parole si sono bagnate di vino, ma la notte non ci ha portato tante risposte.
Non credo che qualcuno si possa chiamare santo, eroe, monaco guerriero… o altri appellativi simili. Non mi va di fare critiche né di fare elogi. Perché non ci sono persone che si sono comportate bene o si sono comportate male. Non c’è una morale, perché la favola non è finita, e speriamo che sia solo un brillante prologo.
R.